Rischioso estrarre dal cilindro la parola “gioco” quando si parla delle “cose da grandi”. Eppure essa contiene una serie di sfumature che andrebbero riscoperte e che fanno proprio al caso nostro.
“Gioco”, infatti, è anche uno spazio vuoto, un lasco intrapreso tra gli elementi di un meccanismo che consente lo scambio di movimento minimizzando l’attrito tra le parti.
“Mettersi in gioco” è coraggio, adesione alla sfida in prima persona, dunque partecipazione.
Nel gioco non c’è una strada già tracciata, non è possibile stabilire a priori il risultato finale, ma si lascia che sia il processo stesso, con le sue necessità, a dare vita a nuove forme.
Il “gioco” è il processo istintivo che si genera in noi, qualsiasi sia la nostra età anagrafica, e che ci porta a sovvertire le regole per crearne di nuove, dando vita a una dimensione fittizia che fornisce linfa a quella reale. E’ il luogo mentale dell’ibrido-intermedio-sospeso-sperimentale.
E’ metodo innato e fecondo capace di risultati preziosi, basti considerare che «la cultura, nelle sue fasi originarie, viene giocata. La cultura […] si sviluppa nel gioco e come gioco». E «se la cultura è gioco l’esecuzione ludica dei giochi riconosciuti come tali […] è momento metalinguistico in cui la cultura parla le proprie regole, il momento in cui la cultura tiene in esercizio le proprie forme, svuotandole di qualsiasi contenuto concreto per poterle riconoscere, esercitare e perfezionare», il «momento della salute sociale, della massima funzionalità in cui la società fa, per così dire, marciare il motore in folle, per pulire le candele, disingolfarsi, scaldare i cilindri, far circolare l’olio, tenersi in assetto» (Johan Huizinga, Homo ludens, 1973).